E così vorresti fare l’insegnante

Se lo fai per i soldi, non farlo.
Anche perché saresti abbastanza fesso, vista la mia ultima busta paga.

Se lo fai per avere un posto fisso e un lavoro sicuro,
lascia perdere:
dopo due giorni rimpiangeresti di non aver chiamato per quell’annuncio come animatore in quel villaggio turistico.

Se sei di quelli che “I giovani d’oggi sono tutti dei rammolliti” e “Non hanno voglia di far niente” e “Una volta qui era tutta campagna”,
lascia che ti dica una cosa:
non fa per te.

Se quando vedi un ragazzino un po’ timido, un po’ in disparte, un po’ che non sa che pesci pigliare,
non ti viene l’istinto di andare lì ad abbracciarlo, a dirgli “Dai, proviamoci insieme”,
è meglio se ti trovi qualcos’altro.

Se lo fai per i due mesi di vacanza, trova un altro lavoro che te ne dia altrettanti, ma non questo:
ad ogni giugno sentirai di aver bisogno di almeno il doppio del tempo per riprenderti.

Se non ti nasce dentro come un ruggito,
se non ti spuntano le branchie a stare in mezzo a quegli oceani di paure desideri orrore e voglia di spaccare il mondo che sono
gli occhi di un adolescente,
scusa ma
non è roba per te.

Se non ci credi tu per primo, che qualcosa possa cambiare,
se sei di quelli ormai rassegnati
se nemmeno leggi più il giornale perché ogni giorno ti sembra uguale,
davvero
non lo fare.

Se poi lo fai perché hai studiato e non hai trovato altro,
assolutamente
davvero
assolutamente
No. Non farlo.

Questo non è un lavoro che fai quando non c’è altro.
Lo fai quando non c’è altro che vorresti mai fare.

E.Galiano

Devi star bene!!!

Ma devi voler bene come prima cosa a te stessa, ragazza.
Ti devi curare.
Con carezze, gelati, scarpe nuove, quintali di libri e cose strampalate che ti facciano ridere.
Con amici più giovani di te che rinnovino il tuo entusiasmo, e con amici più grandi di te che aumentino la tua saggezza.
Con persone uguali a te che ti facciano sentire capita e con persone diversissime che ti aiutino a capire.
Guarda tramonti, scrivi una cosa al giorno che ti abbia colpita, legati i capelli e vai a correre.
Scappa pure da quel che devi, non aver paura.
Piangi, che non sei debole se lo fai, sei solo vera.
Impara a stare da sola ma continua ad apprezzare la compagnia.
Cammina, ed allenati ad osservare, non solo a guardare.
Hai un medico per il corpo, cercatene uno anche per l’anima: dovresti essere tu, perché l’anima è più difficile da interpretare del corpo e solo tu la conosci.
Ma ricorda sempre una cosa: se non stai bene non potrai mai fare del bene.
Quel che hai dentro scivola inevitabilmente fuori è l’osmosi.
Se sei distrutta devi ricostruirti, o altrimenti finirai per distruggere.
Catherine Black
Credits Brooke Shaden

Fase 2

Fase 1 era molto più facile. L’autorità diede un ordine secco, univoco, con pochissime deroghe: state a casa, se tenete alla pelle. La paura facilitò l’obbedienza, e un popolo che non ha mai brillato per disciplina ha retto la parte con compattezza imprevedibile.

Fase 2 è molto più difficile. Non si tratta più di imporre una clausura uguale per tutti, ma di governare una parziale riapertura, diversa per moltissimi. Con una pluralità di esigenze, interessi, necessità, ambizioni, disperazioni e speranze che la sospensione del “tutti a casa” aveva come azzerato. Nella reclusione ci siamo assomigliati tutti o quasi, per due mesi filati. Ora torniamo a essere l’idraulico, la maestra, il cuoco, il manager, l’attrice, l’operaio, lo scassinatore, il marinaio, la scienziata, il pilota, la escort, eccetera. Non avevamo mai avuto, “prima”, gli stessi interessi, gli stessi orari, le stesse aspettative, gli stessi tricolori alle finestre.

Nemmeno il più ottuso degli statalisti oserebbe pretendere che questa rimessa in moto di una società intera possa essere davvero normata a regola d’arte, al centimetro, categoria per categoria, famiglia per famiglia. La pedanteria e le goffaggini dei vari decreti governativi (gli “affetti stabili”, eccetera) possono irritare, o alimentare la satira, ma sono il segno evidente che il fantasma dei “pieni poteri”, checché ne dicano uomini di potere dispiaciuti di non avere abbastanza potere, non passa attraverso le raccomandazioni ai barman o il calendario degli allenamenti dei calciatori.

Semmai, il faticoso velleitarismo di alcune (non tutte) indicazioni del governo testimonia l’impotenza del potere politico rispetto a una questione troppo complicata, troppo enorme, troppo inedita anche per un ipotetico Direttorio dei Nobel e dei Saggi. Non è possibile – lo spiegava bene Gustavo Zagrebelsky – l’inquadramento giuridico di tutte le relazioni umane, sebbene esse siano, oggi, più nevralgiche che mai, al tempo stesso vita e morte, l’arma del contagio e, se ben gestite, il suo nemico mortale. Gli amori, il lavoro, lo svago, i movimenti, le amicizie, insomma la vita di ogni individuo, sono un copione che sfugge, a volte, perfino al suo autore. Figuriamoci a un protocollo interministeriale.

E allora? E allora, detta brutalmente, tocca a noi. A ciascuno di noi. Possiamo e dobbiamo pretendere che le norme siano il più possibile chiare e sensate. Che aiutino e non ostacolino. Ma non possiamo pretendere di essere accompagnati fuori casa passo dopo passo, mossa dopo mossa, da uno Stato Padre che ci eviti l’inciampo. Lo Stato è l’eterno alibi di questo Paese, un nemico da incolpare o una tetta alla quale attaccarsi, ed è anche per questo che è così latitante il concetto di responsabilità individuale. È invece solamente la responsabilità individuale, in questo momento più che in qualsiasi altro momento, la marcia in più che può sorreggere la ripartenza oppure farla deragliare. Non c’è norma, per quanto azzeccata, che possa impedire al cittadino incivile le promiscuità superflue, o alla guardia zelante di multare il camminatore solitario, a rischio zero, lungo una spiaggia deserta o in un bosco. Entrambi, il cittadino e la guardia, possono fare la cosa giusta se si appoggiano alla propria intelligenza (principio razionale) e alla propria coscienza (principio etico).

Responsabilità individuale come vera leva della ripartenza: equivale a dire che dovremmo fare in poche settimane una rivoluzione liberale mai fatta. Elevando l’individuo al rango di protagonista e responsabile delle proprie azioni, nel bene e nel male. Con una ulteriore complicazione: che dobbiamo essere individualmente responsabili non solamente per noi stessi, ma perché ogni singolo comportamento individuale ha strette e immediate conseguenze sulla vita degli altri. Non è solo il nostro destino a dipendere da noi, è il destino di tutti. Dunque dovremmo fare in poche settimane anche quella rivoluzione socialista che non abbiamo mai fatto.

Il pessimismo è nelle cose – è nella nostra storia. Ma sono già accadute, negli ultimi mesi, parecchie cose che non avremmo mai potuto immaginare. La pandemia ci ha dimostrato che gli incubi esistono. Magari anche i sogni
Michele Serra

Siamo noi …

“Siamo noi, la generazione più felice di sempre.

Siamo noi, gli ormai cinquantenni, i nati tra gli inizi degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. La generazione più felice di sempre.

Siamo quelli che erano troppo piccoli per capire la generazione appena prima della nostra, quelli del ’68, della politica e dei movimenti studenteschi. Ancora troppo piccoli per comprendere gli anni di piombo, l’epoca delle brigate rosse e delle stragi nere.

Siamo quelli cresciuti nella libertà assoluta delle estati di quattro mesi, delle lunghe vacanze al mare, del poter giocare ore e ore in strade e cortili, delle prime televisioni a colori e i primi cartoni animati. Delle Big Babol e delle cartoline attaccate alle bici con le mollette da bucato. Delle toppe sui jeans e delle merendine del Mulino Bianco. Dei gelati Eldorado e dei ghiaccioli a 50 lire. Dei Mondiali dell’82 e della formazione dell’Italia a memoria. Di Bearzot e Pertini che giocano a scopa.

Siamo quelli che andavano a scuola con il grembiule e la cartella sulle spalle, e non ci si aspettava da noi nulla che non fosse di fare i compiti e poi di giocare, sbucciarci le ginocchia senza lamentarci e non metterci nei guai. Nessuno voleva che parlassimo l’Inglese a 7 anni o facessimo yoga. Al massimo una volta a settimana in piscina, giusto per imparare a nuotare.

Poi siamo cresciuti, e la nostra adolescenza è arrivata proprio negli anni ’80, con la musica pop, i paninari e il Walkman. Burghy e le spalline imbottite. Madonna e il Live Aid. Delle telefonate alle prime fidanzate con i gettoni dalle cabine e delle discoteche la domenica pomeriggio. Di Top Gun e Springsteen. Dei Duran Duran e degli Spandau Ballet. Delle gite scolastiche in pullman e delle prime vacanze studio all’estero.

E poi c’era l’esame di maturità, e infine il servizio militare, 12 mesi lontano da casa, i capelli rasati e tante amicizie con giusto un po’ di nonnismo. Nel frattempo magari un Inter Rail e infine un lavoro. All’Università ci andavi solo se volevi fare il medico, l’avvocato o l’ingegnere. Che il lavoro c’era per tutti.

Siamo cresciuti nella spensieratezza assoluta, nella ferma convinzione che tutto quello che ci si aspettava da noi era che diventassimo grandi, lavorassimo il giusto, trovassimo una fidanzata e vivessimo la nostra vita. Non abbiamo mai dubitato un istante che non saremmo stati nient’altro che felici.

E, dobbiamo ammetterlo, per quanto il futuro ci sembri difficile, e per quanto questa situazione ci appaia incomprensibile e dolorosa, siamo stati felici. Schifosamente felici. Molto più dei nostri genitori e parecchio più dei nostri figli.

Siamo la generazione più felice di sempre. E torneremo, presto, ad essere di nuovo felici.”

-Dal web

Ciao sono Giacomo

LA MERAVIGLIOSA LETTERA DI GIACOMO ALLA SCUOLA ITALIANA 🇮🇹

Cara scuola,
ecco cosa mi manca di te
Sono Giacomo Bertó, ho 16 anni e frequento la terza liceo classico a Trento. In questi giorni di intontimento generale ho scritto una lettera come un innamorato alla sua amata: ho scritto una lettera alla scuola. Eccola.
Cara scuola, come stai? Spero meglio di come sto io. Di come stiamo noi. In molti si dimenticano di chiederlo, di interessarsi a cosa provano gli studenti. Quasi avessimo deciso noi di separarci da te, dalla normalità quotidiana. Invece, mai come ora che non ti abbiamo più, ti rivogliamo indietro. Ti rimpiangiamo. Troppo tardi? Spero di no. Ma quando ci rivedremo? Aprile? Maggio? Settembre? Cara scuola, sapessi come ti hanno rimpiazzata! La chiamano “didattica a distanza”. Al posto del professore uno schermo, una voce. Parlano e noi, connessione permettendo, ascoltiamo. Ma la testa gira, va via, come i giga e il collegamento. La lavagna non c’è più. Non c’è il mio vicino di banco. Tutto è tanto, troppo lontano. Riprovi a concentrarti, fissi lo schermo, cerchi un sorriso nella webcam. “L’apprendimento non può essere solo la somma di una quantità di nozioni, messe in fila; deve essere condivisione, coinvolgimento.” Lo dicono tutti. Ma come si fa così? E se non capiamo? Dove sono finite le alzate di mano? Gli sguardi dei prof, quelli dei miei compagni, il suono della campanella? Dov’è la mia bidella preferita? Le relazioni che fine hanno fatto? Cara scuola, prima ci lamentavamo delle troppe ore passate tra le tue mura, ora iniziamo quasi a sognarle. Ne capiamo il valore. Era questo che dovevamo imparare signor Virus? Ok, ora basta però C’è anche chi si fa problemi per la valutazione… il “programma”. Ma non era scomparso il “programma”? Non erano le competenze a contare ora? Quante ne dobbiamo tirare fuori, in questa tragedia? Chi pensa invece ad arginare il nostro smarrimento, la nostra paura? I numeri servono, ma tu, cara Scuola, tu sei molto più! Sei centro di aggregazione, luogo d’incontro di anime ribelli dai volti brufolosi, dove ognuno scopre il suo piccolo spazio. Sei una palestra dove le nostre teste crescono, si confrontano, dove ci si innamora, si sogna,si cresce. Non sei un edificio chiuso. Sei un mare di opportunità rubate. Siamo noi o sei tu scuola che devi adattarti a questa situazione? Per fortuna qualcuno ha capito che questo inarrestabile susseguirsi di drastici avvenimenti ha lasciato spaesati anche i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine. Che anche noi stiamo perdendo amici e parenti, che anche noi non siamo felici di questi giorni, che sembrano tutti uguali. E no, non sono vacanze, mi piacerebbe fosse chiaro questo! Cara scuola, ci manchi… Mi manchi! Non ci siamo nemmeno salutati. Quest’anno niente lacrime degli studenti di terza media al suono dell’ ultima campanella: io ne avevo versate così tante con la mia mitica 3D! Rimarrà un vuoto dentro, mancherà l’urlo di liberazione allo scadere dell’ultima ora, gli abbracci con i prof preferiti, con i compagni, gli arrivederci e la consapevolezza che dopo tante fatiche verrà l’estate, avrà i nostri occhi… E ora invece, cosa verrà? Cara Scuola, non ci dimenticare. Prenditi, come sempre, cura di noi.

(Giacomo Bertò)

Capitano, il mozzo è preoccupato

Dal Libro Rosso di C. G. Jung

“Capitano, il mozzo è preoccupato e molto agitato per la quarantena che ci hanno imposto al porto. Potete parlarci voi?”
“Cosa vi turba, ragazzo? Non avete abbastanza cibo? Non dormite abbastanza?”
“Non è questo, Capitano, non sopporto di non poter scendere a terra, di non poter abbracciare i miei cari”.
“E se vi facessero scendere e foste contagioso, sopportereste la colpa di infettare qualcuno che non può reggere la malattia?”
“Non me lo perdonerei mai, anche se per me l’hanno inventata questa peste!”
“Può darsi, ma se così non fosse?”
“Ho capito quel che volete dire, ma mi sento privato della libertà, Capitano, mi hanno privato di qualcosa”.
“E voi privatevi di ancor più cose, ragazzo”.
“Mi prendete in giro?”
“Affatto… Se vi fate privare di qualcosa senza rispondere adeguatamente avete perso”.
“Quindi, secondo voi, se mi tolgono qualcosa, per vincere devo togliermene altre da solo?”
“Certo. Io lo feci nella quarantena di sette anni fa”.
“E di cosa vi privaste?”
“Dovevo attendere più di venti giorni sulla nave. Erano mesi che aspettavo di far porto e di godermi un po’ di primavera a terra. Ci fu un’epidemia. A Port April ci vietarono di scendere. I primi giorni furono duri. Mi sentivo come voi. Poi iniziai a rispondere a quelle imposizioni non usando la logica. Sapevo che dopo ventuno giorni di un comportamento si crea un’abitudine, e invece di lamentarmi e crearne di terribili, iniziai a comportarmi in modo diverso da tutti gli altri. Prima iniziai a riflettere su chi, di privazioni, ne ha molte e per tutti i giorni della sua miserabile vita, per entrare nella giusta ottica, poi mi adoperai per vincere.
Cominciai con il cibo. Mi imposi di mangiare la metà di quanto mangiassi normalmente, poi iniziai a selezionare dei cibi più facilmente digeribili, che non sovraccaricassero il mio corpo. Passai a nutrirmi di cibi che, per tradizione, contribuivano a far stare l’uomo in salute.
Il passo successivo fu di unire a questo una depurazione di malsani pensieri, di averne sempre di più elevati e nobili. Mi imposi di leggere almeno una pagina al giorno di un libro su un argomento che non conoscevo. Mi imposi di fare esercizi fisici sul ponte all’alba. Un vecchio indiano mi aveva detto,anni prima, che il corpo si potenzia trattenendo il respiro. Mi imposi di fare delle profonde respirazioni ogni mattina. Credo che i miei polmoni non abbiano mai raggiunto una tale forza. La sera era l’ora delle preghiere, l’ora di ringraziare una qualche entità che tutto regola, per non avermi dato il destino di avere privazioni serie per tutta la mia vita.
Sempre l’indiano mi consigliò, anni prima, di prendere l’abitudine di immaginare della luce entrarmi dentro e rendermi più forte. Poteva funzionare anche per quei cari che mi erano lontani, e così, anche questa pratica, fece la comparsa in ogni giorno che passai sulla nave.
Invece di pensare a tutto ciò che non potevo fare, pensai a ciò che avrei fatto una volta sceso. Vedevo le scene ogni giorno, le vivevo intensamente e mi godevo l’attesa. Tutto ciò che si può avere subito non è mai interessante. L’ attesa serve a sublimare il desiderio, a renderlo più potente.
Mi ero privato di cibi succulenti, di tante bottiglie di rum, di bestemmie ed imprecazioni da elencare davanti al resto dell’equipaggio. Mi ero privato di giocare a carte, di dormire molto, di oziare, di pensare solo a ciò di cui mi stavano privando”.
“Come andò a finire, Capitano?”
“Acquisii tutte quelle abitudini nuove, ragazzo. Mi fecero scendere dopo molto più tempo del previsto”.
“Vi privarono anche della primavera, ordunque?”
“Sì, quell’anno mi privarono della primavera, e di tante altre cose, ma io ero fiorito ugualmente, mi ero portato la primavera dentro, e nessuno avrebbe potuto rubarmela piu”.