Fase 2

Fase 1 era molto più facile. L’autorità diede un ordine secco, univoco, con pochissime deroghe: state a casa, se tenete alla pelle. La paura facilitò l’obbedienza, e un popolo che non ha mai brillato per disciplina ha retto la parte con compattezza imprevedibile.

Fase 2 è molto più difficile. Non si tratta più di imporre una clausura uguale per tutti, ma di governare una parziale riapertura, diversa per moltissimi. Con una pluralità di esigenze, interessi, necessità, ambizioni, disperazioni e speranze che la sospensione del “tutti a casa” aveva come azzerato. Nella reclusione ci siamo assomigliati tutti o quasi, per due mesi filati. Ora torniamo a essere l’idraulico, la maestra, il cuoco, il manager, l’attrice, l’operaio, lo scassinatore, il marinaio, la scienziata, il pilota, la escort, eccetera. Non avevamo mai avuto, “prima”, gli stessi interessi, gli stessi orari, le stesse aspettative, gli stessi tricolori alle finestre.

Nemmeno il più ottuso degli statalisti oserebbe pretendere che questa rimessa in moto di una società intera possa essere davvero normata a regola d’arte, al centimetro, categoria per categoria, famiglia per famiglia. La pedanteria e le goffaggini dei vari decreti governativi (gli “affetti stabili”, eccetera) possono irritare, o alimentare la satira, ma sono il segno evidente che il fantasma dei “pieni poteri”, checché ne dicano uomini di potere dispiaciuti di non avere abbastanza potere, non passa attraverso le raccomandazioni ai barman o il calendario degli allenamenti dei calciatori.

Semmai, il faticoso velleitarismo di alcune (non tutte) indicazioni del governo testimonia l’impotenza del potere politico rispetto a una questione troppo complicata, troppo enorme, troppo inedita anche per un ipotetico Direttorio dei Nobel e dei Saggi. Non è possibile – lo spiegava bene Gustavo Zagrebelsky – l’inquadramento giuridico di tutte le relazioni umane, sebbene esse siano, oggi, più nevralgiche che mai, al tempo stesso vita e morte, l’arma del contagio e, se ben gestite, il suo nemico mortale. Gli amori, il lavoro, lo svago, i movimenti, le amicizie, insomma la vita di ogni individuo, sono un copione che sfugge, a volte, perfino al suo autore. Figuriamoci a un protocollo interministeriale.

E allora? E allora, detta brutalmente, tocca a noi. A ciascuno di noi. Possiamo e dobbiamo pretendere che le norme siano il più possibile chiare e sensate. Che aiutino e non ostacolino. Ma non possiamo pretendere di essere accompagnati fuori casa passo dopo passo, mossa dopo mossa, da uno Stato Padre che ci eviti l’inciampo. Lo Stato è l’eterno alibi di questo Paese, un nemico da incolpare o una tetta alla quale attaccarsi, ed è anche per questo che è così latitante il concetto di responsabilità individuale. È invece solamente la responsabilità individuale, in questo momento più che in qualsiasi altro momento, la marcia in più che può sorreggere la ripartenza oppure farla deragliare. Non c’è norma, per quanto azzeccata, che possa impedire al cittadino incivile le promiscuità superflue, o alla guardia zelante di multare il camminatore solitario, a rischio zero, lungo una spiaggia deserta o in un bosco. Entrambi, il cittadino e la guardia, possono fare la cosa giusta se si appoggiano alla propria intelligenza (principio razionale) e alla propria coscienza (principio etico).

Responsabilità individuale come vera leva della ripartenza: equivale a dire che dovremmo fare in poche settimane una rivoluzione liberale mai fatta. Elevando l’individuo al rango di protagonista e responsabile delle proprie azioni, nel bene e nel male. Con una ulteriore complicazione: che dobbiamo essere individualmente responsabili non solamente per noi stessi, ma perché ogni singolo comportamento individuale ha strette e immediate conseguenze sulla vita degli altri. Non è solo il nostro destino a dipendere da noi, è il destino di tutti. Dunque dovremmo fare in poche settimane anche quella rivoluzione socialista che non abbiamo mai fatto.

Il pessimismo è nelle cose – è nella nostra storia. Ma sono già accadute, negli ultimi mesi, parecchie cose che non avremmo mai potuto immaginare. La pandemia ci ha dimostrato che gli incubi esistono. Magari anche i sogni
Michele Serra