Ai tanti effetti della clausura prolungata che ha divelto le nostre abitudini mi permetto di aggiungerne uno di cui non si parla mai abbastanza: la scomparsa del Caso, dell’Inaspettato.
Nella vita di prima succedevano cose impensabili che oggi sono impossibili, mentre allora erano solo imprevedibili. Andavi a una cena e incontravi l’amore della vita oppure un cretino - statisticamente più il secondo che il primo – ma in entrambi i casi avevi aggiunto un nome in agenda e una riga al libro delle tue esperienze. Adesso puoi uscire di casa soltanto per vedere congiunti e amici in modica quantità. La sorpresa non è contemplata, anzi è temuta: se nel salotto della persona da cui sei in visita entra qualcuno che non conosci, il tuo primo pensiero non è «sarà simpatico?», ma «avrà fatto il tampone?».
È come se dal film della nostra esistenza fossero state tagliate di colpo oltre la metà delle scene. E infatti se una volta, sugli schermi e nei libri, ci nutrivamo di storie per sognare le vite che non avremmo mai potuto avere, adesso andiamo a cercarvi quella che avevamo prima che ci venisse tolta: gli abbracci, le facce scoperte, i bar affollati, persino gli ingorghi e gli stadi pieni di tifosi arrabbiati, perché anche il caos fa parte dell’esperienza umana ed espellerlo per decreto non può essere considerata una soluzione soddisfacente.
Siamo arrivati al punto che l’altra sera il primo ministro britannico Boris Johnson, riposti per sempre in un cassetto i proclami vitalisti del suo recente passato, è andato in tv a informare i suoi connazionali che d’ora in poi, e chissà fino a quando, si potrà uscire di casa solo per «fare la spesa essenziale, comprare le medicine e fuggire dagli abusi domestici». Avrebbe fatto prima a dire: «Solo per questione di vita o di morte».
Ci siamo persi l’Altro, ed è una mancanza che alla lunga comincia a dispiacere persino ai misantropi. Soprattutto ci siamo persi la possibilità di perderci: per strada, come dentro un contrattempo. Ho provato a fare una breve lista di tutti i piccoli eventi imprevedibili a cui abbiamo rinunciato da quando la nostra vita è diventata una ripetizione schedulata di gesti meccanici: lo sguardo di uno sconosciuto sulla metropolitana, un litigio tra automobilisti nevrotici, uno sfottò al bar. Casualità gradevoli o spiacevoli, ma comunque vive, perché quasi mai preventivabili. Ginnastica per la mente, costretta a misurarsi con stimoli inaspettati. Si può riprodurre tutto questo dentro lo schermo di un computer? Me lo chiedo ogni volta che penso agli adolescenti. Sono loro le prime vittime emotive di quanto ci sta succedendo. Da quasi un anno, non mettono più piede regolarmente dentro una scuola, un concerto o una festa. La giovinezza è uno stato d’animo che reclama la presenza, il contatto fisico. Vedersi «a distanza» è una condizione artefatta, un rito asettico che taglia fuori quasi tutti i sensi, a cominciare dall’olfatto: forse il più dirimente, almeno per gli innamorati.
Provate a calare nel lockdown i due adolescenti più famosi della letteratura, Romeo e Giulietta. Nella Verona di questi giorni non si conoscerebbero neanche: Romeo non riuscirebbe a imbucarsi in casa Capuleti, neppure se fosse munito di regolare autocertificazione. Così resterebbe congelato nelle sue passioni sbagliate ma conosciute, finendo per andare a prendere inutilmente freddo sotto il balcone della sdegnosa Rosalina, purché entro e non oltre le dieci di sera. Probabilmente lui e Mercuzio si ubriacherebbero di continuo e andrebbero a fare a botte con la banda rivale per dare un senso alla noia. Certo, i due amanti non morirebbero più per le conseguenze del loro amore. Però morirebbero dentro, per non averlo vissuto. Ed è proprio questa non-vita che oggi tormenta una intera generazione a cui sono stati tolti gli spazi dello studio e quelli della convivialità, oberandola di debiti che toccherà a lei pagare in cambio di servizi che neanche la riguardano, dal momento che il Recovery Fund ideato – si fa per dire – da un governo di dinosauri e camaleonti si occupa di tutto tranne che dei giovani.
Immagino stuoli di psicologi al lavoro per studiare le conseguenze di questa pena, che non dà certezze neanche sulla sua fine. Non sarà facile tornare alle vecchie abitudini, e neanche immediato. Quando tutto il mondo avrà fatto il vaccino (compresa l’Italia, sia pure qualche mese dopo) ci sentiremo come chi è reduce da un grave incidente. Da bambino mi ruppi malamente un braccio cadendo dalla bici e ricordo ancora benissimo la sensazione che provai appena mi tolsero il gesso. Il mio cervello si rifiutava di credere che certi gesti, un tempo normali, fossero tornati possibili, e continuava a rivolgersi all’altro braccio per ogni evenienza. A quello ingessato non bastò guarire. Dovette reimparare a esserlo. La lunga inattività aveva ristretto la sua zona di conforto: temeva qualsiasi contatto e qualsiasi imprevisto, scambiandolo per un’invasione di campo in grado di attentare alla sua integrità ritrovata. Anche a noi toccherà reimparare (o imparare tout court) ad avere fiducia negli altri, e prima ancora in noi stessi. Sarà durissima, non vedo l’ora.
di Massimo Gramellini